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Quale Effetto Mozart?

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Verso la fine degli anni ’90 iniziò a spopolare una nuova tendenza: l’Effetto Mozart.

I media lo pubblicizzarono in modo sensazionalistico, sottolineando come il far ascoltare Mozart ampliasse le capacità cognitive. Il successo di questo fenomeno risalì all’esperimento del 1993 dei fisici Gordon Shaw e Frances Rauscher, i quali riscontrarono che dopo l’ascolto di dieci minuti della “Sonata per due pianoforti” (K448), le prestazioni di soggetti normodotati in compiti di ragionamento spaziale*1 migliorassero rispetto ad altre condizioni sperimentali (istruzioni di rilassamento guidato) e di controllo (silenzio). Questo effetto però durava solamente per 10 minuti.

Successivamente vi furono grossi problemi per quanto riguardava la replicabilità dell’esperimento. I risultati ottenuti da altri non si avvicinavano alla presunta eccezionale scoperta. Rauscher sottolineò che non dovesse esserci un miglioramento a livello di QI, quindi di intelligenza generale degli individui, ma che l’effetto si “limitasse” alle abilità di ragionamento spaziale. Per poter validare la sua ipotesi di ricerca, Rauscher cercò di valutare l’effetto Mozart anche nei bambini di età prescolare (Rauscher et al., 1997), dopo una serie di lezioni di pianoforte durate sei mesi. Da notare che questo si trattò di un esperimento a lungo termine, a differenza dell’esperimento originale che prevedeva una seduta di ascolto di breve durata. Le prestazioni dei bambini istruiti furono migliori nel campo del ragionamento spaziale rispetto a coloro che non avevano svolto il training, ma gli effetti durarono 24 ore.

Possiamo quindi attribuire ai mass-media una errata trasmissione delle potenzialità dell’Effetto Mozart: “Ascoltare Mozart ti fa diventare più intelligente!”, “Fate ascoltare Mozart ai bambini e diventeranno geniali anche loro!”. Perfino Tomatis elaborò un metodo di terapia sulla depressione incentrato su di esso.

Ma questo effetto Mozart esiste? Se sì, in cosa consiste realmente?

La maggior parte degli studi successivi che si sono occupati di validare questo fenomeno, hanno smentito che fosse la musica di Mozart (e in particolare quello specifico brano) a scatenare il miglioramento nelle abilità di ragionamento spaziale. Questo “Effetto Mozart” fu riscontrato anche in altri brani di Mozart (come il Concerto per pianoforte n. 23 k 488), anche nell’ascolto di brani di Bach e di altri autori.

Queste critiche si fecero più numerose quando si scoprì il reale meccanismo sottostante: l’attivazione cerebrale provocata dall’ascolto di un determinato brano, detta arousal, che era caratterizzata da un maggiore stato attentivo-cognitivo di vigilanza e di pronta reazione agli stimoli esterni. I ricercatori si chiesero se lo stesso tipo di attivazione potesse essere prodotta anche da stimoli non musicali.

Questa nuova piega portò ad interessanti esiti: l’arousal in sé viene prodotto da qualcosa che ti fa sentire bene, che ti interessa, che ti migliora l’umore. Perfino ascoltare la narrazione di un racconto di Stephen King, se è preferito all’ascolto di un brano musicale o altro, può innescare un aumento di vigilanza e di abilità di performance. Pertanto è il provare piacere nell’attività in cui sei coinvolto che permette un miglioramento delle prestazioni in compiti cognitivi. Non è la musica in sé a renderci più “responsivi” (e non più intelligenti), ma i fattori che, come l’aumento di arousal, che scatenano una condizione di attenzione, concentrazione, impegno e persistenza maggiore nell’eseguire l’azione.

In conclusione, l’Effetto Mozart ha permesso, attraverso la sua smentita, di arrivare ad importanti risultati. Infatti, può essere d’aiuto non soltanto nei training riabilitativi e nella prevenzione di burnout nel proprio contesto lavorativo, ma anche nel contesto scolastico come strategia di studio che efficacemente combina le materie da studiare con i propri interessi.

*1 = quantificano il grado di immaginazione visiva degli oggetti solidi a partire da piani bidimensionali

Bibliografia e sitografia:

Music and the Brain: Jessica Grahn at TEDxWesternU (2013)

J. S. Jenkins, (2001). The Mozart Effect. Journal of the Royal Society of Medicine, 94 (170-172).

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